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Provate a pensare al deserto del Nevada. All’occhio della mente apparirà una distesa di argille e di calcare pugnalata dal sole, che vi ha impresso ferite superficiali, crepe entro le quali si rifugiano serpi e lucertole. Nella torrida estate lo scirocco spira potente, portando con sé arbusti che disegnano geometrie ellittiche e agitando la sabbia in danze vorticose, ad invadere gli occhi.

Ebbene, se tale immagine vi si è palesata, ora sapete come era il campo sportivo di Lacedonia negli anni settanta.

Una distesa d’argilla rotta, di tanto in tanto, da dislivelli e pietrisco, sul quale facilmente i calciatori scivolavano battendovi muso, ginocchia e braccia.

Eppure quelle zolle di creta non producevano “cretini”, ma grandi calciatori, veri campioni che, se avessero avuto delle possibilità, avrebbero potuto aspirare a ben altre posizioni ed anche, perché no!, alle serie maggiori.

Figure indimenticabili e indimenticate calcavano quel palcoscenico argilloso.

Chi se lo scorda il “Bomber”, il grande Peppino Palladino, indimenticabile e indimenticato, criniera nera arruffata e barba incolta, una sorta di Sandokan che si muoveva con rapidità felina e si prendeva gioco dei difensori, aiutato anche dalla sua fisicità snella ma muscolosa e nervosa.

E certo oggi mi capita di rivedere molti di quei calciatori, anche se solo in periodo di vacanza, e costruisco nella mente le immagini delle competizioni che vedevano scendere in campo la mitica “Folgore”, la Seleção lacedoniese.

Il nome era quanto mai appropriato.

Ricordo il Presidentissimo di tutte le epoche calcistiche, Vincenzo Saponiero, che passeggiava nervosamente lungo il bordo campo. Occorre dire a suo merito che senza di lui il calcio a Lacedonia sarebbe morto da decenni.

Mitica Folgore, che aveva visto militare tra le sue fila generazioni diverse e che ancora negli anni settanta annoverava figure storiche del calcio lacedoniese, come Leonardo Quatrale e la premiata ditta “Fratelli Pio”, Tonino e Nicola, l’articolo “il” essenziale alla grammatica calcistica di Lacedonia.

Molte le figure che si sono impresse nel ricordo indelebile dei lacedoniesi.

Rocco Pagnotta, ad esempio, che aveva un tiro talmente potente che, quando calciava una punizione, il pallone ritornava per posta con il timbro di Lugano.

Grandissimo spessore aveva il duo Ferrante, l’elegante Leonardo e Gino, estremamente prolifico di goal. Io ero un loro tifoso, come pure di Nicola Bianco, anch’egli un cesellatore della palla, dotato di un tocco di estrema classe.

Come non citare il Che Guevara, il guerrigliero delle fasce laterali, Franco Pasciuti, che all’epoca portava i baffi alla Vallanzasca e seminava il terrore lungo le ali del campo.

Il grande difensore Gerardo, diventato talmente famoso che gli hanno intitolato l’aeroporto di Foggia, il “G. Lisa”.

E lo “spillo” della situazione, Lannunziata, e l’attivissimo Peppino Chiauzzi (attivissimo di notte, s’intende: come voleva stare in piedi di giorno sul campo?).

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Chi ha visto il celebre film di Tornatore, vincitore dell’Oscar, Nuovo Cinema Paradiso, può avere la precisa idea di quale atmosfera si respirasse nell’ampio salone del Cinema Argentino. Il nome gli era stato dato dal suo fondatore, quel Vigorita, detto il “milionario”, che era riuscito a far fortuna nel continente latino americano e, tornato a Lacedonia, vi aveva portato molti benefici e una quantità incredibile di innovazioni, tra le più importanti occorre citare la luce elettrica e la fornace, che offriva lavoro a molti operai locali. Non ultima ed importantissima fu l’iniziativa di fondare un cinema, uno dei pochi della provincia nei anni venti.

Pareti tappezzate di amaranto, nel fascio di luce della proiezione si levavano dense nuvole di fumo, perché tutti, più o meno, amavano tirar boccate durante il film. Eravamo poco più che adolescenti e solevamo sederci sui sedili tondi che si trovavano proprio a ridosso del palco con lo schermo, mentre gli adulti si accomodavano sulle lignee poltroncine quadre collocate posteriormente. Era sempre pieno a quei tempi il cinema, perché per vedere un film alla televisione occorreva attendere il lunedì o i giorni della Fiera del Levante. Era quasi un rito. Prima di salire la gradinata si passava di solito da “Zia Ripalda”, che abitava in una vano di pochi metri quadri vicino all’entrata del cinema e che vendeva semi di zucca, le cosiddette “nozzere”, o di girasole o le arachidi: al termine della proiezione il pavimento era scomparso sotto un fitto strato di bucce, le “scorze”, che andavno ad unirsi con i mozziconi di sigaretta.

Taluni posti erano rigorosamente riservati ad alcuni personaggi, da “Z’ M’chele Mo’ M’ncazz”, che incoraggiava l’attore, ovvero l’eroe positivo della storia, ad uccidere i cattivi con l’espressione “moc’ ven!”, al vecchietto che usava dire: “Inghie e bive, car ca”. Di tanto in tanto un qualche rumore di innominabile provenienza rompeva l’atmosfera di suspense che si creava, dando luogo a fragorose risate. Come pure, nel caso sullo schermo apparisse l’immagine di un bacio o di una semplice coscia femminile nuda si prorompeva in fragorosi fischi.

Certo non si trattava di film di prima visione, ma di un palinsesto alquanto datato, al punto che spesso le pellicole si spezzavano in corso di proiezione: c’era il ciclo mitologico, con Maciste o Ercole in tutte le salse; c’era quello del western spaghetti, con Gringo, Sartana, Sabata, che uccidevano una schiera di persone con un semplice starnuto della pistola; si proiettava qualche film di cappa e spada. Ma l’apice del successo lo raggiungevano Franco e Ciccio, sostituiti nel cuore degli appassionati da Bud Spencer e Terence Hill, che entusiasmavano taluni, specialmente Michele Brunetti, che, immediatamente dopo, cercavano sempre qualcuno con cui scazzottarsi.

Anche questo erano gli anni settanta!

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La scuola nei mitici anni 70 non era solamente “didattica”: era soprattutto svago e divertimento.

Le sole occasioni che non vedevano alcuna defezione erano le gite scolastiche e soprattutto i Mak π 100.

Si trattava delle feste organizzate dagli studenti dell’ultimo anno cento giorni prima dell’esame, consuetudine mutuata da quella statunitense, che al principio degli anni settanta si palesò consolidandosi nel tempo, al punto che perdura ancora ai giorni nostri.

Tre Istituti Superiori significavano tre diversi e distinti Mak π 100.

Le location in cui si tenevano erano, agli inizi degli anni settanta, abbastanza approssimate (talvolta si tenevano nella palestra del Magistrale), ma questo non deprivava l’evento del suo fascino e gli studenti dell’attesa. Un salto di qualità si ebbe quando si cominciò ad organizzare i Mak π nella Sala Chiauzzi e poi ai Due Pini di Candido Quatrale.

Dal 1969 fino ai giorni nostri è stato un crescendo di feste scolastiche che hanno registrato la partecipazione di gruppi musicali di gran fama. In quei mitici anni settanta, ad esempio, furono chiamati gli Alunni del sole e i New Trolls. Negli anni ottanta venne persino Zucchero, che si esibì nella sala di Crescenzo, solitamente adibita a magazzino per il grano. Sarà forse allora che concepì la celebre canzone che faceva: “Respirerò l’aria dei granai …”?

Ma questo è un altro decennio, insomma un’altra storia.

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Che cosa ne è stato di quella fortunata generazione che ha vissuto gli anni verdi in quei fantastici, mitici anni settanta?

Il vento della vita ha eroso i nostri giorni e ci ha schiaffeggiato, scavandoci come roccia sedimentaria, come il tufo delle nostre alture, che talora franano o semplicemente si consumano.

Della nostra antica avvenenza non resta che un capello in bilico sul cranio, monumento ai “caduti”, testimone silente di passate fluenti chiome. La pelle, un tempo tesa e liscia, s’è appassionata anch’essa allo sport estremo del momento, il bungee jumping, e quindi si getta nel vuoto dalle orbite oculari o dai pettorali, ch’erano scolpiti nel marmo, e … da non dico dove: nelle innominate parti talvolta ci si inciampa. Come s’inciampa spesso nell’incredulità. Pareva impossibile che il simpatico giovane ribelle che viveva in tutti noi potesse mai trasformarsi nell’adulto rassegnato, abituato ai calci dell’esistenza, spesso incapace di reagire.

Dove sono finiti quei giovani scanzonati, sempre pronti allo scherzo, impegnati a disimpegnarsi, amanti della compagnia, portatori di una creatività che induceva ad inventarsi l’esistenza ogni giorno, eppure umanamente partecipi e solidali nei confronti altrui? Possibile mai che abbiano lasciato campo libero ad una miriade di adulti ego inferociti, concentrati solo su se stessi e sui propri affari, incuranti della deriva altrui?

Questo non lo credo!

Talvolta mi capita di udire, nei più remoti anfratti dei miei timpani, la voce di quei giovani, ivi compresa la mia, e capisco che loro ci sono ancora, magari imprigionati in qualche strato d’adipe di troppo e sicuramente dalle sbarre forgiate dalla vita, che taluni avvertono soltanto alla stregua d’un rosario di disillusioni, che comprimono e incattiviscono l’animo. Altri, abbagliati dai richiami del vitello d’oro, lo hanno elevato a meta esistenziale e non si avvedono che non sono loro a possedere il denaro ma è il denaro che li possiede. Ed in tal modo antiche amicizie, che parevano eterne, si sono dissolte al primo alitar del vento dell’interesse personale, la gioia di vivere è spesso sepolta sotto le ceneri delle esplosive eruzioni di rabbia, la musica tace e tace il giovane che è in noi.

Vi rivelerò un segreto.

Non è possibile invecchiare, perché lo spirito vive al di fuori delle categorie del tempo e dello spazio, essendo immateriale, come lo è il pensiero.

La percezione di se stessi è frutto di libera scelta: tocca a noi decidere la nostra età.

Ma … alzi la mano chi pensa che il discorso si stia facendo serio. La mia s’è alzata. Prometto di non scivolare più in una “serietà” banalmente nostalgica. La nostalgia la lasciamo ai vecchi. Che ve ne pare?

Ed allora ritorniamo alla domanda iniziale. Che ne è stato di quanti, io compreso, per virtù d’anagrafe negli anni settanta erano adolescenti e giovani?

Eccoci …

Noi siamo quelli che da giovani credevano d’essere adulti e da adulti credono d’essere giovani.

Siamo quelli che guardandosi allo specchio vedono soltanto le rughe degli altri.

Siamo quelli che sapevano bene che cosa tirava più di un carro di buoi …

e siamo quelli che si meravigliano se oggi i buoi hanno l’affanno.

Noi siamo quelli che difendevano i propri diritti e lasciavano i doveri agli altri.

Siamo quelli che interrogati a scuola si avvalevano della facoltà di non rispondere.

Siamo quelli che beccavano in un giorno un tre in tre materie diverse ed erano felici di aver fatto il “buongioco”.

Siamo quelli che senza una lira in tasca vivevano come principi.

Siamo quelli che con un giradischi mezzo scassato mettevano in piedi una discoteca.

E siamo quelli che “cazzeggiavano”, via etere, sui mhz delle prime radio libere.

Siamo i “lampi” delle mitiche squadre di calcio e siamo i Fantomas, le Onde Rosse, le Polveri di Stelle dei tornei interni.

E siamo quelli che creavano complessi non essendo complessati.

Siamo quelli che talvolta suonavano ad orecchio, ma non per questo erano “orecchioni”.

Siamo quelli per cui la serietà più profonda consisteva nel non prendersi mai sul serio.

Siamo quelli che ci provavano con tutte e rimbalzavano con molte.

Siamo quelli che pensavano d’essere cacciatori e in realtà erano prede.

Siamo quelli che frequentavano l’azione cattolica per abbordare le convittrici …

e siamo quelli che guai se ci beccava la suora.

Siamo quelli che s’avvolgevano di fumo e di oscurità accanto al juke box del “bar di Gerardo”, perennemente in penombra, e siamo quelli che nel buio allungavano la mano e protendevano le labbra.

E l’altra metà del cielo?

Erano quelle che cominciavano a portare i pantaloni.

Erano quelle che uscivano in pubblico anche con i ragazzi.

Quelle che cominciavano a tirare fumo da una sigaretta.

Erano quelle che finalmente guidavano l’automobile.

Erano quelle della liberazione delle donne.

Quelle che urlavano slogan femministi.

Quelle che ci mettevano spesso in un angolo.

Quelle che ci facevano penare.

Quelle irraggiungibili che talvolta ci raggiungevano.

Quanto erano belle le ragazze dei mitici anni ’70.

Il tempo batte violentemente sull’incudine delle storie personali e sulle vecchie foto, ma se riesce a raggrinzire la carta, anche a spezzarla, a sbiadire le immagini, nulla può sullo spirito che da esse promana, su quella giovialità immortale e sempreverde che erompe da quei sorrisi, da quelle braccia levate in segno di vittoria. Ciò che fummo saremo per sempre.

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